Le statistiche dicono che negli ultimi vent’anni l’età media della donna che diventa mamma si è alzata progressivamente in tutta Europa. L’Italia è il fanalino di coda di questa particolare statistica, infatti l’età media della donna che partorisce il primo figlio è di 30,8 anni (fonte Eurostat, 2015). In tutte le altre nazioni europee le donne partoriscono in media ad età inferiore, ad esempio in Germania a 29,5 anni e nel Regno Unito a 28,7 anni.
Che cosa comporta questo avanzamento nell’età della donna? Principalmente è correlato alla manifestazione più probabile di malattie genetiche nel bambino. Questa correlazione, si sostiene essere principalmente a carico del fatto che la dotazione di cellule uovo nella donna è definita fin dalla nascita della donna stessa, perciò le cellule uovo vengono esposte a possibili agenti mutageni o a mutazioni spontanee, per un periodo più lungo nella donna matura. In realtà ci sono anche altre cause delle quali scriverò nel prossimo articolo.
Le principali patologie che si presentano in un feto la cui mamma ha superato i 35 anni, sono le aneuploidie, ovvero le variazioni di numero dei cromosomi. Come sappiamo, i cromosomi si presentano in 23 coppie e le aneuploidie più note e frequenti sono a carico del cromosoma 21, sindrome di Down, il cromosoma 13, sindrome di Patau e il cromosoma 18, sindrome di Edwards.
Come si rilevano queste anomalie cromosomiche nel periodo pre-natale?
Si possono utilizzare vari sistemi diagnostici e di screening, i più attendibili sono l’amniocentesi e la villocentesi che sono veri e propri test diagostici. Questi test hanno la caratteristica di essere invasivi, ovvero richiedono il prelievo rispettivamente di una certa quantità di liquido amniotico e di villi coriali. Tali prelievi espongono a un certo rischio di aborto a causa della loro invasività e hanno anche un certo impatto psicologico sulla donna provocando spesso stati d’ansia.
Da pochi anni è possibile sostituire in parte questi test invasivi con un semplice prelievo di sangue materno. Vediamo di cosa si tratta e perché può sostituire solo in parte, almeno per ora, l’amniocentesi e la villocentesi.
Il test che utilizza il semplice prelievo di sangue materno, si chiama test non invasivo prenatale (non invasive pre-natal test, NIPT, in inglese) e utilizza i frammenti di DNA fetale che si trovano naturalmente nel circolo sanguigno materno. Tali frammenti sono analizzabili attraverso una tecnica innovativa chiamata Next Generation Sequencing, da circa la decima settimana e quindi consentono di prendere decisioni più precocemente di quanto non consentano gli esami invasivi che possono essere eseguiti solo dopo la dodicesima-tredicesima settimana. L’NIPT, utilizzando l’abbreviazione inglese, si sta diffondendo sempre più ed è disponibile in Italia sia attraverso il sistema sanitario pubblico che attraverso enti privati, in entrambi i casi però non è rimborsato. In Olanda, da Aprile 2018, partirà il primo programma nazionale di NIPT aperto a tutte le donne in gravidanza. Si tratta di un importante passo verso l’introduzione nella routine del test e anche della sua introduzione nella lista dei test rimborsabili.
Veniamo ora all’altra domanda: perché l’esame non invasivo prenatale non può sostituire completamente l’amniocentesi e la villocentesi? Sostanzialmente perché si tratta di un test probabilistico, ovvero fornisce una probabilità che il feto abbia una anomalia cromosomica tra quelle citate sopra oltre alla probabilità associata ad aneuplodie dei cromosomi sessuali X e Y. Inoltre, l’NIPT non è in grado di evidenziare mosaicismi o aneuploidie diverse da quelle a carico dei cromosomi 13, 18 e 21.
Tuttavia, la tecnologia sta progredendo molto velocemente e ciò che non era possibile solo pochi anni fa ora è realtà. Gli esperti dicono che tra qualche anno anche l’NIPT si sarà sviluppato a tal punto da essere considerato a tutti gli effetti un test diagnostico a quel punto non avremo più bisogno dei test invasivi.