Nel nostro organismo abbiamo degli alleati naturali contro l’infiammazione causata da SARS-CoV-2. Si tratta delle cellule staminali. Ma come possono essere utilizzate come trattamento dei malati Covid-19?

Ce lo spiega la dott.ssa Giovanna D’Amico biologa esperta in Immunologia, specializzata in Applicazioni Biotecnologiche e con un master europeo in Immunologia. Attualmente è responsabile dell’Unità di Immunologia e di terapia cellulare al Centro Ricerca Tettamanti di Monza. In questo articolo ci parlerà di alcune cellule staminali particolari chiamate cellule stromali mesenchimali e della loro funzione antinfiammatoria per il trattamento dei pazienti affetti da polmonite da SARS-CoV-2.

Lo studio RESCAT è il primo in Italia in cui vengono utilizzate cellule mesenchimali su pazienti affetti da SARS-CoV-2.

Abbiamo già parlato di terapie a base di cellule staminali mesenchimali contro il Coronavirus in questa intervista al dottor Giuseppe Astori, e abbiamo anche affrontato l’argomento dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale per l’analisi dei dati nell’ambito del progetto AIforCovid.

Ma torniamo alla dott.ssa D’amico e cominciamo con alcune domande per conoscere meglio il suo lavoro e la sua esperienza.

Dott.ssa D’amico, ci può spiegare l’importanza delle cellule mesenchimali stromali e del loro utilizzo come trattamento dei pazienti affetti da polmonite da Coronavirus?

«Cominciamo col dire che, prima di arrivare ai risultati attuali, il Centro Ricerca Tettamanti sta lavorando sulle cellule mesenchimali stromali da circa dieci anni, con l’obiettivo di contrastare la malattia del trapianto verso l’ospite, Graft versus Host Disease (GvHD). Abbiamo quindi una esperienza molto estesa sulla funzione antinfiammatoria delle cellule stromali mesenchimali. Perciò quando si è capito che una delle complicanze maggiori di Covid-19 era l’enorme risposta infiammatoria, la così detta tempesta di citochine, ci è subito venuto in mente di poter utilizzare le cellule stromali mesenchimali per spegnere l’infiammazione come avevamo fatto nella GvHD. In seguito, è nato lo studio multicentrico RESCAT».

In cosa consiste il progetto RESCAT?

«Si tratta di uno studio coordinato dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena con l’Università di Modena e Reggio Emilia. A tale studio partecipano gli Ospedali Meyer e Careggi di Firenze, il Policlinico Irccs Ca’ Granda di Milano con l’Ospedale Covid di Milano Fiera, l’Ospedale San Gerardo di Monza con il Centro Ricerca Tettamanti e con l’Università Milano-Bicocca, l’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona e l’Azienda Ospedaliera di Vicenza. A supportare i centri per l’analisi dei biomarcatori saranno l’Istituto Mario Negri di Milano e il Centro Ricerca Tettamanti.

Quando abbiamo cominciato a lavorare su questo studio, c’era solo un lavoro fatto da ricercatori cinesi. Abbiamo perciò raccolto la documentazione necessaria che abbiamo sottomesso all’AIFA e al Comitato Etico e poco tempo fa abbiamo ricevuto l’approvazione per iniziare con lo studio su pazienti.

Più nel dettaglio lo studio multicentrico RESCAT è uno studio prospettico randomizzato di fase I e IIa, ovvero viene fatto per comprendere la fattibilità e la sicurezza di un trattamento. Verranno arruolati 40 pazienti che verranno trattati con cellule mesenchimali stromali e 20 pazienti che non verranno trattati e che quindi costituiscono il gruppo di controllo. Tutti i pazienti arruolati nello studio saranno affetti da polmonite severa da infezione da SARS-CoV-2 e ricoverati presso le Covid Unit coinvolte nel lavoro».

Quali sono i vantaggi e le novità dello studio RESCAT?

«Innanzi tutto si tratta del primo studio in Italia in cui vengono utilizzate cellule mesenchimali su pazienti affetti da SARS-CoV-2. Da altri studi preliminari condotti in Cina e in altre parti del mondo, risulta che il trattamento con cellule mesenchimali migliora l’ossigenazione, determina un calo dei livelli di molecole infiammatorie e un miglioramento del quadro clinico e radiologico. Inoltre, non sono mai state riportate reazioni allergiche, dimostrando così la sicurezza di questo trattamento.

La cosa più importante di questo studio è che le cellule mesenchimali stromali provengono da diverse fonti: da midollo osseo, cordone ombelicale e tessuto adiposo.

Inoltre, sono cellule allogeniche, ovvero non provengono dal paziente, questo significa che il donatore può essere sostanzialmente chiunque, non è necessaria una compatibilità come nel caso dei trapianti. Non c’è alcun rischio di rigetto.

Altre caratteristiche importanti dello studio multicentrico sono le seguenti:

  • la riproducibilità, ovvero che il trattamento funzioni in laboratori diversi e con operatori diversi. Questa è una caratteristica molto importante per poterlo poi adottare su larga scala;
  • facilità di arruolare pazienti potendo disporre di molte Covid Unit;
  • rappresentatività della popolazione italiana;
  • i pazienti arruolati non dovranno essere affetti da co-morbidità per poter valutare l’efficacia del trattamento senza l’interferenza di altre patologie».

Il trattamento con cellule mesenchimali può essere solo terapeutico o anche preventivo?

«Le cellule mesenchimali stromali per poter fare il lavoro richiesto, ovvero ridurre la risposta infiammatoria, devono trovare un microambiente infiammatorio, perciò non possono essere utilizzate in forma preventiva ma solo terapeutica.

Tuttavia, anche se la loro funzione è esclusivamente terapeutica, gli effetti potenzialmente possono essere molto importanti e sono principalmente i seguenti:

  • riduzione del periodo di degenza;
  • diminuzione della dipendenza da ossigenazione;
  • possibile riduzione del danno causato dalla fibrosi con miglioramento dell’efficienza respiratoria».

Quanto è sviluppata la terapia cellulare in Italia e quale futuro vede nel suo utilizzo?

«C’è stato un notevole progresso nella creazione delle “Cell Factory” come quella che abbiamo alla Fondazione Tettamanti e che è attiva dal 2007, ora ce ne sono circa venti in Italia. Inoltre, si sta credendo sempre più nell’utilizzo delle cellule come farmaci e di conseguenza nelle terapie cellulari. Fino a poco tempo il concetto di farmaco era legato a un composto chimico esclusivamente prodotto in laboratori industriali, ora si è capito che anche le cellule, opportunamente trattate, possono essere utilizzate come dei veri e propri farmaci.

Mi auguro che ci siano ulteriori progressi nella conoscenza e nell’uso delle terapie cellulari in vari campi, in particolare nella cura dei tumori e non solo nelle leucemie ma anche nei tumori solidi».

L’immunologia è un campo molto di moda in questo periodo, il suo interesse però è nato tempo fa. Ci spiega quale è stata la scintilla che ha accesso in Lei il fuoco della ricerca?

«Fin da piccola ho sempre mostrato un grande interesse per la scienza. Poco tempo fa ho ritrovato alcuni disegni che ho fatto da bambina e che mi ritraevano con un cappello da strega mentre guardavo in un microscopio e poi correvo da mia mamma e dicevo: “ho trovato la cura contro il cancro!”.

Ho sviluppato tutto il mio percorso di studi nell’ambito scientifico e quella scintilla accesa da bambina si è alimentata quando, durante il quarto anno di scuole superiori, mi è stata data la possibilità di fare uno stage di un mese nell’Istituto Mario Negri, nel laboratorio di immunologia del Professor Alberto Mantovani. Poi, mi sono iscritta a Biologia e quando si è trattato di scegliere dove andare a fare la tesi, sono tornata nel laboratorio di immunologia con il sogno di diventare una ricercatrice».

Ci racconti della sua esperienza al Centro di Ricerca Tettamanti

«Ho avuto la possibilità poi di espandere le mie conoscenze nel campo cellulare spostandomi a Monza proprio nel laboratorio del Centro Ricerca Tettamanti del Prof. Biondi. L’esperienza in questo nuovo laboratorio ha cambiato il mio approccio con la ricerca. All’Istituto Mario Negri facevamo ricerca pura, ovvero manipolavamo campioni che non avevano un nome e non erano riconducibili a una persona.

Nel Centro Ricerca Tettamanti ho iniziato a fare ricerca applicata lavorando su campioni provenienti da bambini affetti da leucemia (il Centro di ricerca fa parte infatti della Clinica Pediatrica del Centro Maria Letizia Verga, dove vengono curati i bambini con la leucemia). La mia passione è cambiata dal voler scoprire qualcosa e pubblicarlo a cercare di aiutare una persona, in questo caso un bambino che sta facendo la chemioterapia al piano di sopra rispetto al laboratorio. Una nuova situazione alla quale mi sono adattata subito e che mi ha coinvolto anche emotivamente spingendomi ad interessarmi allo studio della malattia del bambino».

Dopo tanti anni di ricerca, cosa la motiva ad andare in laboratorio ogni mattina?

«Sicuramente la voglia di riuscire a trovare una cura per tutti i bambini affetti da Leucemia Linfoblastica Acuta (LLA), questo è il mio obiettivo condiviso con tutto i miei collaboratori e tutti i ricercatori della Fondazione Tettamanti.

Ora come responsabile del laboratorio non lavoro più direttamente agli esperimenti, tuttavia, supervisionando i progetti delle tesiste, degli studenti di dottorato e dei post doc. Cerco di trasmettere la mia passione e insegnare che ogni risultato, anche negativo è un risultato utile perché ci mostra che abbiamo imboccato una strada sbagliata e ci sprona a trovare quella giusta».

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